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Una collaborazione continuativa tra cittadino e istituzioni può svilupparsi in diversi modi, come nell’utilizzo collettivo che quotidianamente facciamo della cosa pubblica, o nell’esperienza di progetti strutturati dall’esplicita vocazione sociale. Per dare risalto al valore che queste azioni possono apportare alla comunità, abbiamo deciso di raccontare alcune realtà che si spendono per costruire luoghi aggregativi che contribuiscano a rendere la città un posto accogliente e stimolante, lavorando in maniera sinergica con le amministrazioni locali e i circuiti associativi nazionali.
Ci hanno accompagnati nell’inaugurazione di questo ciclo di interviste i ragazzi di Officina MECA, un’associazione che opera nella città di Ferrara, precisamente negli spazi dei grattacieli del GAD.

Abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarci la loro storia e le attività di cui si occupano, senza tralasciare gli aneddoti più rappresentativi del clima che si può respirare durante le loro serate. Come nasce Officina MECA?

Diego: Officina MECA nasce a cavallo tra il 2015 e il 2016, inizialmente composta da me e un altro ragazzo che ora non fa più parte del circolo. Organizzavamo serate al circolo ARCI RENFE, eravamo degli esterni e non avevamo ancora alcun inquadramento. Dopodiché abbiamo maturato la consapevolezza di dover trovare una sede perché l’associazione potesse guadagnare autonomia e sviluppare le proprie attività in maniera indipendente. Affianco al centro di mediazione in cui stavo lavorando c’è una sala polivalente poco utilizzata che avrebbe dovuto essere destinata ad attività di promozione sociale, così ho proposto di trovare delle associazioni che fossero interessate a gestire questo spazio in maniera continuativa e abbiamo dato vita noi a questo percorso, assieme ad altre organizzazioni: ogni ente poteva affittare la sala per promuovere incontri e quant’altro. Si è creata così una cordata di associazioni che ha tenuto aperto questo spazio e lo ha animato.
Officina MECA così come intesa oggi, invece, nel senso di associazione affiliata ad ARCI che opera alla base del grattacielo, è nata a febbraio 2018. Lo facciamo in maniera totalmente gratuita e volontaria, seguendo una vocazione che parte dall’amore che abbiamo per la musica e che si apre ad una compagine di situazioni che riguardano la socialità nel senso più ampio del termine.

Lasciateci fare un tuffo nella vostra programmazione: quali artisti avete ospitato?

Clelia: Abbiamo progettato la programmazione fin dall’inizio scegliendo artisti con una certa sensibilità sociale. Non avevamo un nome da spendere per attirarli, quindi abbiamo agganciato il loro interesse raccontando un po’ le difficoltà del quartiere e il suo immenso potenziale. Una volta arrivati sul posto si rendevano conto di come, nonostante la nomea, fosse un quartiere normalissimo, con le problematiche di ogni luogo in cui si concentrano esperienze profondamente differenti.
Abbiamo avuto l’opportunità di ospitare i Dunk (Carmelo Pipitone alla chitarra, Luca Ferrari alla batteria), poi Davide Toffolo, dei Tre Allegri Ragazzi Morti, con cui Diego condivide la passione per la comba, poi Lodo Guenzi dello Stato sociale per un evento organizzato in collaborazione con CIDAS.
Arianna: I Hate My Village, Populous, One Dimensional Man, Animatronic… Mi è capitato di incontrare in altri contesti degli artisti che hanno suonato con Officina MECA che si ricordavano dell’esperienza con piacere. È un’enorme soddisfazione pensare che questi artisti, abituati a suonare nei circoli più disparati, possano ricordarsi di noi e dei grattacieli di Ferrara.

Clelia: La nostra forza sta nell’averli sempre accolti con un entusiasmo che chi lavora nella musica da anni si trova spesso ad aver perso. Cercavamo di farli sentire accolti, di fargli trovare nei camerini cose che potessero fargli piacere, o di cucinare per loro i piatti della tradizione.

Tornando a quanto diceva prima Diego, che ruolo ha giocato il centro di mediazione nella crescita e nello sviluppo di Officina MECA?

Diego: Secondo me il ruolo del centro di mediazione è stato fondamentale. E’ stato l’elemento che ha permesso di trovare un equilibrio in questa situazione, venendo incontro ai bisogni delle associazioni come la nostra, che pur essendo aperte a fare attività sociali e che guardano alla riqualificazione del quartiere, perseguono anche un obiettivo specifico: noi abbiamo voglia di fare della musica, e così come per ogni associazione che tende a presentare anche una mission specifica, questo merita di essere compreso e valorizzato perché costituisce il mezzo attraverso cui noi possiamo effettivamente creare valore per il territorio. La sinergia che si è creata tra l’assessorato, le cooperative, il centro di mediazione e noi come associazioni, mi è sembrato molto proficuo, e soprattutto ci ha fatto sentire liberi di portare avanti le nostre iniziative senza vincoli o limitazioni eccessive.

Clelia: C’è da dire che l’area in cui si sviluppa il nostro progetto è stata oggetto di grande attenzione da parte della politica locale. Questo ha fatto in modo che le istituzioni maturassero una profonda consapevolezza delle problematiche presenti e si dimostrassero molto ben disposte a collaborare per la realizzazione di progetti che potessero apportare miglioramenti allo sviluppo del tessuto sociale locale. Abbiamo faticato poco con le istituzioni, più con il pubblico, perché combattere certi stereotipi è stato difficile: molte persone che venivano da fuori erano preoccupate a causa dell’immagine del quartiere che si era affermata nelle rappresentazioni collettive. Anche ARCI ci ha sostenuto in maniera determinante.

La collocazione della sede sembra ricoprire un ruolo centrale all’interno di questa esperienza, ma perché? Cos’è il GAD? Cosa succede in questo quartiere?

Diego: I grattacieli nascono alla fine degli anni ‘60 nel quartiere Giardino e avrebbero dovuto proiettare Ferrara nel futuro. Col passare del tempo, la collocazione urbana piuttosto isolata, la mancanza di servizi e le politiche di edilizia popolare che hanno interessato la zona hanno fatto in modo che si condensassero all’interno di questi luoghi alcuni fenomeni che hanno connotato negativamente l’area, stigmatizzandola. In questo contesto è partito un ampio processo di riqualificazione, incentrato sull’operato del centro di mediazione

Clelia: Nel tentativo di riqualificare la zona hanno fatto dei lavori di sistemazione degli immobili chiedendo un contributo alle famiglie residenti, per cui chi non era in grado di sostenere l’investimento è stato costretto ad andarsene. Questo ha creato una mutazione del tessuto sociale che c’era in precedenza, anticipando l’arrivo degli studenti. Gli studenti noi in realtà li abbiamo vissuti poco, perché l’insediamento è iniziato poco prima che la pandemia ci costringesse ad interrompere le attività.

Come ha influito questo mutamento del tessuto sociale sui partecipanti alle vostre iniziative? Con i residenti che tipo di rapporto avete?

Clelia: Noi abbiamo vissuto più che altro la fase di transizione di questo processo. Ma il nostro merito maggiore, secondo me, sta nell’essere riusciti a portare lì delle persone che altrimenti lì non ci sarebbero mai andate a causa della cattiva reputazione del luogo.

Arianna: Una cosa che siamo riusciti a fare con i residenti o con la gente più abituata a vivere la zona per questioni di prossimità è CARINO, un festival che abbiamo realizzato nel 2019 e 2021: l’iniziativa si sviluppava attraverso una serie di concerti che si sono svolti nel giardino dei grattacieli. In quel momento siamo riusciti ad attrarre persone, ma nelle attività che svolgiamo ordinariamente durante l’anno la nostra soddisfazione maggiore è sicuramente data dal riuscire a portare in sede persone esterne.

Clelia: Ti racconto un piccolo episodio. Era la prima sera d’apertura, serata a tutto volume, gruppo che suonava. A un certo punto qualcuno ci avverte che sul nostro tetto si incrociano gli appartamenti di una famiglia di un ragazzo pakistano che ha due bambini, e una famiglia di ragazzi nigeriani. Noi super preoccupati di averli disturbati, perché avevamo tenuto la musica alta fino a tardi e il locale non era ancora insonorizzato come è adesso. Finiamo, chiudiamo tutti intimiditi e vediamo che si affaccia alla finestra questo ragazzo pakistano: noi ci scusiamo tantissimo per la confusione, e lui ci risponde “ma come? avete già finito?”. Di fianco iniziava a diffondersi un suono di tamburi: quando si sono accorti che la musica era finita, loro hanno iniziato a suonare. Poi c’era un ragazzo tunisino che veniva sempre, veniva solo, si beveva la sua birra. Un giorno si è presentato con dei regali di compleanno per noi.

Arianna: Un’altra attività che ha riscosso un certo consenso tra i residenti è stato il Cineforum. Con l’aiuto di un nostro caro amico intenditore di cinema abbiamo organizzato delle serate cinematografiche offrendo una programmazione un po’ più di nicchia. Ovviamente ad offerta libera: quasi in tutte le serate abbiamo voluto rispettare la filosofia dell’up to you, così che chi se la sentiva potesse offrire qualcosa per sostenerci, ma senza imporre a nessuno un contributo economico per accedere. In queste serate, molto spesso, c’erano delle “proiezioni democratiche”, ossia si proponevano dei trailer senza dare altre informazioni, e poi per alzata di mano si decideva cosa si sarebbe visto quella sera.
Diego: Molti ci chiedevano di realizzare un progetto di stand up comedy. Era una cosa da sviluppare, ci stavamo arrivando.

Clelia: Sarebbe stata la prima rassegna di stand up comedy a Ferrara, ma sulla prima data è scattata la chiusura del lockdown e quindi non siamo riusciti a farlo.

Sembra che le vostre iniziative abbiano portato una bella aria di novità, che impatto hanno avuto sulla considerazione esterna del quartiere?

Diego: La visione che gli altri hanno del quartiere ha sicuramente subito alcune modifiche, anche perché è stato messo in atto un processo di riqualificazione che ha permesso all’isolato di mutare fisicamente. È stato recintato, è stato fatto un campo polivalente, un’area per bambini, ha aperto il bar.

Clelia: Quando siamo arrivati noi il quartiere era militarizzato, perché ovviamente nel mezzo della campagna elettorale e del disastro mediatico la soluzione immediata è stata quella di far presidiare il quartiere. Questo sicuramente ha contribuito a far sì che i fenomeni di microcriminalità che interessavano la zona si spostassero altrove, ma è ovvio che mantenere un quartiere in quelle condizioni a lungo non possa essere una soluzione sostenibile a problematiche sociali di questo tipo. Un miglioramento reale si può ottenere soltanto operando sul tessuto sociale, attraverso il tessuto

Urbano: più popoli un quartiere, più offri servizi e aumenti la frequentazione della zona, più ovviamente le attività illecite tendono a non stabilirsi lì. Questo è sicuramente il contributo sociale più consistente fornito dalle nostre iniziative, nonché la logica attraverso cui si declina il nostro impegno nella riqualificazione della zona.
Arianna: Secondo me l’inclusione attraverso i nostri progetti avverrà, ma gradualmente. Una volta fidelizzato il pubblico puoi proporre serate che sappiano avvicinare pubblici diversi.

Avete già qualche iniziativa in cantiere per quando sarà possibile?

Diego: Sicuramente siamo in una fase di ridefinizione, sia a livello individuale che collettivo. In questi due anni i cambiamenti sono stati molti, ed è necessario fare nuovamente il punto della situazione. Nonostante questo, la voglia di continuare a fare le attività culturali e sociali resta. Io ho sempre detto che Officina MECA non fa attività di integrazione: noi facciamo cultura, e in questo modo cerchiamo di proporre delle buone pratiche di socialità, che facciano stare bene e permettano alla gente di sentirsi a suo agio in un contesto in cui possa esprimere se stessa liberamente, e speriamo che basti questo a portare all’integrazione di tutti coloro che vorranno affacciarsi alla nostra soglia.

Se doveste pensare in grande, invece, quali sarebbero i vostri sogni per Officina MECA?

Clelia: Noi sogniamo un locale enorme con gente stipata dentro.

Diego: Sarebbe bello poter contare su un locale da gestire in maniera esclusiva. Sicuramente condividere uno spazio ha i propri vantaggi, ma presenta anche delle difficoltà: adesso ogni volta che organizziamo una serata quando apriamo praticamente non abbiamo un locale, corriamo fino alle 9 di sera per allestire tutto, e poi dobbiamo disallestire e pulire fino alle 4 di mattina. Sicuramente la prospettiva di poter avere un po’ più di controllo di quella che è la nostra programmazione e le nostre attività sarebbe bellissimo. L’orizzonte bellissimo sarebbe quello di poter avere uno spazio tutto nostro, all’interno di questo contesto, in cui fare attività tutti i giorni, così da sviluppare un progetto continuativo e lineare avvalendoci di una burocrazia un po’ più snella.

Intervista a cura di Gloria Maini

Tutte le foto provengono dalla pagina Facebook di Officina Meca